Il Bushido – Il codice d’onore e di comportamento per i samurai (e per gli uomini di oggi)

22 Aprile 2012 | Cultura e società

La via del guerriero

Il samurai è la prima figura che riporta alla mente la cultura orientale. Paragonarlo al guerriero feudale sarebbe poca cosa, perché – almeno nei suoi tratti originari – il samurai aveva un’ideologia particolare, che gli impediva di uscire dagli schemi e di comportarsi senza onore. Anzi, dell’onore aveva fatto il suo caposaldo e il suo obiettivo di vita.

Il codice di leggi che il samurai faceva proprio si chiamava bushido. Letteralmente significa “la via del guerriero”, essendo bushi la parola giapponese per “guerriero” e do per “via”, intesa come il cammino migliore da seguire per perseguire un obiettivo (che può essere anche un obiettivo di vita; il termine do corrisponde al cinese tao, da cui ha le radici il taoismo). Non regolava soltanto il comportamento sul campo di battaglia, ma anche l’etichetta all’interno del clan e nei confronti del capo. I suoi principi, infatti, si ispiravano ai dettami del buddhismo, del confucianesimo e dello zen.

Passato e presente

Formalmente era presente già dopo l’anno 1100 (e nella sua forma grezza anche molto prima), ma dobbiamo aspettare fino al periodo Edo, dopo il 1600, perché prenda il suo vero nome.

La filosofia del bushido traspare in modo particolare nel libro Hagakure di Yamamoto Tsunetomo (lo tratterò in dettaglio in un prossimo articolo), un monaco samurai che ha raccolto aforismi capaci di trasmettere la vera essenza del codice guerriero. L’Hagakure, in effetti, rappresenta la massima espressione del bushido, ma la potete trovare anche nel Libro dei cinque anelli di Musashi Miyamoto, uno tra i guerrieri samurai più rispettati e conosciuti, tanto da innalzarsi al rango di leggenda.

Come trattare il bushido al giorno d’oggi? Se continuate a leggere, capirete che ogni singolo punto può essere adattato alla vita di tutti i giorni. Si tratta di un codice di condotta, non soltanto di regole marziali. Che sia applicato sul campo di battaglia vero e proprio (la guerra) o nel campo di battaglia figurato (il lavoro, la famiglia, l’interazione con la società) il concetto è sempre lo stesso e vale la pena di paragonarlo al nostro modo di vivere.

Quando si riflette sulla figura del guerriero giapponese, la prima parola che viene alla mente è il concetto dell’onore. Si immaginano i samurai compiere anche le azioni più efferate, pur di salvare il proprio onore. Se in alcuni casi vi furono sicuramente degli eccessi, non va dimenticato però che il bushido esortava a far sì che l’onore non offuscasse mai altre virtù che dovevano guidare la vita, come la comprensione, il perdono, la magnanimità.
Il samurai che smarriva l’autocontrollo e l’autodisciplina era compatito e il suo stesso onore messo in discussione. Il bushi era tenuto quindi a mantenere un compotamento consono, distaccato. Il suo coraggio, così come l’audacia e la capacità di sopportazione, erano valori apprezzati al massimo, ma non dovevano però essere applicati ciecamente fino alla sconsideratezza. La mancanza di timore per la propria sorte in battaglia era considerata come avventata e, se avveniva senza motivo, veniva bollata quale “valore illegittimo”.

Storia dei samurai e del bujutsu, di Roberto Granati

Nel bushido si esaltavano dunque i valori che un samurai doveva dimostrare a se stesso e pubblicamente. Possiamo riassumerli in sette punti.

Rettitudine (gi)

Intesa come onestà e senso di giustizia. Non doveva esserci confusione tra giusto e sbagliato. Questo significa che per un samurai le vie di mezzo non esistevano: vedeva bianco o nero (una regola strettamente legata al sentimento di fedeltà). La strada scelta doveva essere abbandonata se la si reputava sbagliata.

Questo senso di giustizia doveva essere esteso agli altri e intervenire se lo si vedeva venir meno. Era anche un modo per evitare esitazioni nel compiere un’azione.

Coraggio (yu)

Eliminare ogni tipo di paura è l’arma più efficacie. Quando la folla trema e si nasconde, il samurai reagisce. Non si tratta di essere sconsiderati: l’azione va fatta con intelligenza e saggezza, ma una volta scelto di agire non si torna indietro. La resa non è contemplata. È uno dei motivi che portò i giapponesi a non avere rispetto per i nemici arresi (come successe, per esempio, nella seconda guerra mondiale).

Come liberarsi della paura della morte? I samurai attingevano alla pratica Zen, il cui scopo era di “liberare” la mente dell’uomo. Uno stato chiamato “senza-pensiero” (mushin), in cui corpo e spirito diventano un tutt’uno e si ha un distacco dalle cose materiali: in questo distacco la paura non può trovare posto, perché è sostituita dall’accettazione e dalla calma. Nell’Hagakure, Tsunetomo propone un metodo più estremo:

[…]
Ogni giorno, con il corpo e la mente rilassati dovreste contemplare mentalmente queste scene: di venire squarciati dalle frecce, dai colpi di fucile, da lance e spade; di venire trascinati dalle onde impetuose o gettati in mezzo a un fuoco divampante; di essere dilaniati dal fulmine o di venire travolti da un tremendo terremoto; di cadere da un precipizio altissimo; di morire di malattia o di fare seppuku (ndr: il suicidio rituale fatto per riparare a un disonore) in seguito alla morte del signore. Ogni giorno, senza permettervi la minima trascuratezza o negligenza dovreste considerarvi morti.
Un detto degli antichi dice: «Appena esci di casa, annoverati tra i morti; appena dietro al portone, avverti la presenza del nemico». In certi casi, non è questione di attenzione o di cautela. E’ che, piuttosto, dovreste considerarvi morti già prima del tempo.

Solidarietà (jin)

Intesa come pietà nei confronti del più debole. Se si ha più potere della massa, non lo si deve usare per se stessi ma per aiutare gli altri. Le qualità possedute, che rendono il samurai migliore degli altri, vanno sfruttate aiutando chi non può avvalersi di queste qualità. Se l’opportunità di aiutare gli altri non si mostra, deve essere il samurai a ricercarla.

Rispetto (rei)

La cortesia e il rispetto nei confronti di un uomo è essenziale, anche se si tratta di un nemico. Non importa quale sia lo schieramento o l’ideologia di un uomo: va in ogni caso rispettato per il fatto di essersi messo in gioco. Se anche l’avversario si comporta con onore, si tratterà di una battaglia (vera o figurata) che si ricorderà in futuro; in caso contrario il samurai non sarà in torto.

Sincerità (makoto)

L’onestà deve essere ben chiara nelle proprie azioni. Il samurai non mente, non finge e non ha bisogno di fare promesse: quello che dice deve essere già di per sé una promessa e chiunque sarà certo che l’intento da lui mostrato sarà portato a termine. Come si può capire, è qualcosa che va oltre alla semplice verità, perché si riconduce alla fermezza nel carattere: una volta presa una decisione, non si torna indietro, sia nelle piccole che nelle grandi imprese.

Onore (meiyo)

L’onore è forse il sentimento più difficile da capire della cultura orientale. Associarlo alla vendetta sarebbe sbagliato: non si limita, infatti, a spingere il samurai a vendicarsi per un insulto subito.

Quello che ruota attorno al concetto è, in poche parole, il cercare di raggiungere la perfezione; il dimostrare la propria condizione (che deve essere buona). Il samurai preferiva morire che cadere in disgrazia. Se poi veniva ricordato nelle generazioni future, allora aveva raggiunto lo scopo. Per questo motivo, in battaglia, gridava il suo nome e cercava di elevarsi sopra agli altri.

Il precetto dell’onore nasce e muore con se stessi. Nessun altro dovrebbe dire se le azioni di un samurai sono onorevoli, perché dovrebbe essere lui stesso a saperlo.

Lealtà (chugi)

In quest’ambito ricade il concetto di dovere, molto sentito dagli orientali. Il samurai era legato anima e corpo al suo signore (daimyo), ma anche alla via che aveva scelto. La fedeltà non si fermava qua: il samurai era legato a chiunque decidesse di proteggere. Soprattutto, il legame verso i genitori era forte e saldo quasi quanto quello che aveva nei confronti di un signore. Un samurai era disposto a difendere con la morte sia i genitori che il suo signore.

Il senso di dovere è da estendere a ogni azione. Fatta un’azione, si diventa responsabili delle conseguenze, qualsiasi esse siano.

Fonti principali
Yamamoto Tsunetomo, «Hagakure»
Roberto Granati, «Storia dei samurai e del bujutsu»
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