La Grande chiazza di plastica nel Pacifico: un pericolo grande quanto l’Africa

28 Marzo 2017 | Natura e ambienti

Nel 1997 il capitano Charles Moore di Long Beach, California, salpò con il suo catamarano e raggiunse il Pacifico occidentale. Il tratto di oceano in cui navigò era compreso tra le Hawaii e la California, aveva le dimensioni del Texas (qualcosa come 700 mila chilometri quadrati) ed era chiamato ufficialmente «Vortice subtropicale del Nordpacifico», perché qua si trovava un vortice ad alta pressione che attirava il vento e non lo rilasciava più.

Oggi quella zona è diventata tristemente famosa. Gli oceanografi le hanno attribuito un altro nome: «Grande chiazza di immondizia del Pacifico». Il nomignolo spiega molto bene cosa succede: proprio per il vortice equatoriale, è qua che finisce buona parte dei rifiuti che l’essere umano getta negli oceani. Una gigantesca discarica che lasciò Moore esterrefatto e continua a dar da pensare ai futuristi, ambientalisti o meno che siano. Al suo interno si trovano tappi di bottiglia, reti da pesca, lenze, polistirolo, lattine, pellicole per alimenti e un’infinità di sacchetti di plastica.

La plastica dalle flotte e dalle coste

Per il capitano Moore fu l’inizio di una questione personale. Fondò l’attuale Algalita Marine Research Foundation e cominciò a studiare la Grande chiazza, composta per il 90% di plastica. Tra le varie cose scoprì che le imbarcazioni mondiali scaricavano ogni anno in acqua ben 5 milioni di chili di plastica, sbarazzandosi senza troppi problemi di 639 mila contenitori ogni giorno; e questo valore risale al 1975.

Se pensate che la quantità di plastica scaricata dalle navi sia un numero spaventoso, avete ragione; ma non è niente rispetto alla plastica che proveniva dalle coste. Moore si accorse che l’80% dei rifiuti galleggianti nell’oceano arrivavano proprio dalle coste. Finivano nelle acqua attraverso le fogne o i fiumi, trascinati dal vento e trasportati dalle correnti fino alla zona della Grande chiazza, da dove poi non uscivano più.

Quanta plastica è presente nell’oceano?

Facendo due calcoli, Moore trovò una media di due etti di detriti ogni 100 metri quadrati, il che in totale significavano almeno 3 milioni di tonnellate di plastica. E questa è soltanto la quantità di plastica visibile. Capire quanta plastica non visibile esiste nella Grande chiazza è difficile, perché Moore avvistò grossi frammenti incrostati da così tante alghe che finivano per affondare.

In ogni caso, Moore fece un’altra scoperta orribile: sulla superficie dell’oceano c’era più plastica che plancton, in un rapporto di peso di sei a uno. Questo significa che per ogni chilo di plancton, nell’oceano troviamo sei chili di plastica. In alcune zone tra l’altro, per esempio dove le acque di Los Angeles si riversavano nel Pacifico, i valori aumentavano di cento volte. Pensate che soltanto il Kenya produce ogni anno 4 mila tonnellate di sacchetti di plastica non riciclabile.

Tutto questo è avvenuto nell’arco di cinquant’anni e, dagli anni di analisi di Moore, la situazione non ha fatto altro che peggiorare. Come spiega Alan Weisman nel suo libro “Il mondo senza di noi”:

Nel 2005 Moore riteneva che la pattumiera vorticante del Pacifico fosse ormai un’area di 26 milioni di chilometri quadrati, all’incirca le dimensioni dell’Africa. E non era l’unica: il pianeta ha sei altri grossi vortici oceanici tropicali, tutti ingombri di una tremenda massa di rifiuti.

Quindi la Grande chiazza del Pacifico è soltanto uno dei sette vortici tropicali presenti negli oceani. Anche senza calcolare l’esatta quantità, possiamo renderci conto del peso complessivo.

Secondo un rapporto della Ellen MacArthur Foundation, entro il 2050 negli oceani potrebbe esserci più plastica che pesce.

Minaccia alla salute e alla catena alimentare: i letali granuli di plastica disciolti negli oceani

Dobbiamo ancora considerare la parte peggiore, e cioè i granuli (chiamati «nurdles») che derivano dalla disgregazione della plastica. Sono estremamente pericolosi, per il semplice fatto che la fauna marina li inghiotte di continuo. Moore calcolò il loro numero in circa 100 miliardi di chili, un numero approssimato perché difficile da confermare, e ne trovò intrappolati nei corpi trasparenti delle meduse.

Tra gli animali, pesci e uccelli compresi, funziona così: scambiano i granuli dai colori vivaci per uova di pesce e i granuli marroni per krill, quindi li inghiottono come prevede la catena alimentare. È facile immaginare quanto questi “falsi” alimenti siano dannosi per chi li mangia. I predatori diventano prede di qualcun altro, finiscono mangiati da altri pesci diffondendo la contaminazione, fino ad arrivare ai nostri piatti. Che mangiate pesce o carne di uccello marino poco importa: la plastica è stata comunque inghiottita e assorbita, insieme ai veleni che trasporta.

Scendiamo un attimo nel tecnico. Nel 1970 è stato bandito l’uso dei Pcb (policlorobifenili), adoperati per realizzare plastiche più malleabile e che, si è scoperto, causava ermafroditismo tra i pesci e gli orsi polari. Purtroppo il materiale rilasciato prima del bando galleggiano ancora nell’oceano e rilasceranno Pcb per secoli.

Il geochimico Hideshige Takada dell’Università di Tokyo fa sapere che i Pcb non sono le uniche sostanze tossiche che si legano alla plastica: possono derivare dalla carta copiatrice, dai lubrificanti per automobili, dai fluidi refrigerenti o dagli scarichi industriali.

Il fatto più preoccupante è lo studio di Takada sulle pulcinelle di mare, secondo il quale la concentrazione di veleno nei granuli inghiottiti da questi uccelli era un milione di volte più alta rispetto alle tossine diluite in mare. Non parliamo poi delle lenze, che finiscono inevitabilmente nella bocca dei pesci, o dei fili di nylon invisibili nei quali le balene e i delfini spesso si aggrovigliano.

Il tempo di biodegradazione: possiamo liberarci della plastica?

Il dottor Anthony Andrady è uno dei massimi esperti per quanto riguarda la plastica e ha scritto un libro di ottocento pagine, «Plastics in the Environment». Nemmeno lui, però, riesce a dare una stima precisa di quanto tempo impiega la plastica per disgregarsi: la prognosi è un laconico “a lungo termine”.

Il motivo è che la plastica è un materiale troppo giovane per conoscerne l’esatto decadimento. Nessuna plastica è ancora morta di morte naturale.

Sappiamo che la plastica si dissolve più facilmente sotto i raggi del Sole, quindi in modo più rapido sulla terraferma che nell’acqua dove i raggi sono schermati dalle alghe. Quello che non sappiamo è quanto tempo impieghino i frammenti di plastica disgregati a distruggersi completamente. Il polietilene è biodegradabile in tempi lunghissimi e nell’oceano non esiste ancora un meccanismo per sciogliere la sua molecola.

Detta in modo più chiaro, i microbi non hanno ancora sviluppato gli enzimi per trattare la plastica e considerando la storia passata occorrono diversi secoli prima che imparino a farlo. Tanto per dire, sono trascorsi diversi secoli dopo l’apparizione delle piante prima che i batteri imparassero a mangiare la lignina e la cellulosa; più di recente hanno imparato a mangiare il petrolio. In un esperimento di laboratorio, dopo un anno in cui il polietilene era rimasto assieme a una coltura di batteri vivi, si era dissolto soltanto l’1% del campione.

È un fatto che la plastica degli ultimi cinquant’anni sia ancora in circolo, tolta la parte che abbiamo incenerito. Si parla ormai di oltre un miliardo di tonnellate.

La stima di Andrady è che servirà centinaia di migliai di anni prima che la plastica attuale si consumi del tutto o finisca sepolta dai movimenti della tettonica a zolle.

Fonti principali
Alan Weisman, «Il mondo senza di noi»
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