Perché i social network ci rendono asociali e aumentano il cyberbullismo?

10 Luglio 2017 | Mente e corpo umano

Introduzione

Prima di entrare nel merito dei lati negativi, iniziamo con il puntualizzare che i social network non sono da demonizzare. Sono strumenti, e come ogni strumento è l’uso che se ne fa a renderli utili o rischiosi, o entrambe le cose.

Tra i lati positivi, ricordiamo che i social ci mettono in comunicazione con aziende, persone e società in ogni angolo del mondo, permettendoci di diffondere informazioni e notizie che altrimenti non arriverebbero alle orecchie del cittadino medio. Se avete perso di vista un amico dell’infanzia, potreste ritrovarlo con una rapida ricerca.
Inoltre, i social sono molto utili per combattere situazioni di timidezza cronica (che, paradossalmente, la tecnologia contribuisce ad aumentare): ci sono ragazzi che per carattere tendevano a rinchiudersi prima dell’avvento di internet, per cui non possiamo addossare la colpa soltanto all’evolversi del web, che anzi in questo caso rappresenta un valido supporto.

Fin qui i lati positivi. Purtroppo, la psicologia e l’evoluzione dell’essere umano ci insegnano che i social hanno più punti negativi rispetto a quelli positivi, e che la colpa è proprio dell’uso (in gran parte istintivo) dell’utente medio. Entriamo un attimo nel dettaglio.

Il nostro cervello è nato per essere pigro e per ricevere gratificazione

Il cervello umano si è sviluppato per interagire con gli altri, per collaborare con la comunità. Non possiamo farne a meno. Rispondere in fretta a domande come «a chi dovrei dare la mia fiducia?» oppure «è meglio insultare quest’uomo o tenerlo come amico?» sono alla base della sopravvivenza che ha accompagnato la specie umana. Questo tipo di risposte, però, richiede di processare un bel po’ di informazioni: è il motivo per cui abbia una cervello di grandi dimensioni.

Il rovescio della medaglia è che l’interazione sociale richiede fatica e dispendio di energia, proprio perché dobbiamo assumere di continuo delle decisioni. Quando le interazioni sono troppe, ecco che scatta il meccanismo opposto: la socialità acquista più effetti negativi che positivi, ed è in simili momenti che abbiamo bisogno della nostra “privacy”.

Nei social network si può arrivare a dipendere dalla socialità, come una vera e propria droga (ed è infatti un fenomeno tenuto sotto controllo dagli psichiatri già da anni). Se trascorrete diverse ore al giorno incollati allo schermo, o non riuscite a resistere dall’aprire le notifiche di status quando vi arrivano sullo smartphone e, peggio, quando siete in compagnia con altri, potreste ricadere nella categoria – e forse è meglio se corriate ai ripari.
Ma anche chi guarda raramente i social e si ritiene poco socievole, non appena nota il cambio di status di un amico stretto o un apprezzamento sulla propria bacheca, si senti inconsciamente gratificato.

Il punto è proprio questo: le interazioni sociali ci gratificano. Non importa se siano reali o virtuali, il nostro cervello prova comunque un sentimento di appagamento; rilascia ossitocina e dopamina, responsabili della sensazione di benessere, e attiva il circuito della ricompensa.

Allora cosa c’è di male nel provare piacere? Il problema è che, sulla carta, il cervello dovrebbe ricompensarci soltanto quando eseguiamo realmente delle azioni. La gratificazione serve infatti a farci capire che stiamo seguendo la strada giusta, da ripetere in futuro. Ma nei social otteniamo la ricompensa senza aver fatto niente di concreto, senza aver compiuto uno sforzo. E poiché il cervello è pigro (tende a risparmiare energia), finisce per preferire le interazioni virtuali a quelle reali.
La conseguenza è che un uso massiccio dei social ci porta a diminuire sempre più le interazioni con la società reale. In altre parole, ci rende più antisociali.

Cyberbullismo e manie del controllo, quando si agisce senza capire le conseguenze

Come abbiamo detto, il cervello tende a fare economia delle sue energie. Quando possibile, cerca di evitare i rischi. I social network ci permettono di scegliere come mostrarci agli altri, postando le foto in cui siamo venuti meglio e oscurando gli status scomodi: per l’appunto, eliminando ogni rischio.
Potrebbe sembrare un fatto positivo, ma teniamo conto che in questo modo il cervello si abitua a non “impegnarsi”; quando poi nella vita reale ci troviamo con gli altri, è probabile che non sapremo come comportarci e che ci ritroveremo a preferire il telefonino alle conversazione. Rischiamo di sembrare asociali senza accorgersene.

C’è anche un aspetto molto più pericoloso da considerare. Una ricerca del 2015 svolta da Joy Peluchette dell’Università di Lindenwood ha dimostrato come gli atteggiamenti di narcisismo espongano al cyberbullismo. Detto in altri termini, se postiamo sempre foto di noi in posizioni innaturali (e che crediamo «attraenti») rischiamo di ottenere derisioni e critiche da parte degli altri.

Aggiungiamo poi che scrivere non è certo lo stesso di parlare avendo di fronte l’interlocutore: le frasi possono suonare distorte, con un diverso significato, e in ogni caso non abbiamo la percezione di come reagirà il soggetto dall’altra parte. Tendiamo a esagerare e ad esprimere critiche che non faremmo di norma. Nella realtà, se notiamo un segno di disagio sul volto di chi ascolta, aggiriamo la frase; sui social questo non avviene.

Il risultato è che coloro che ci leggono potrebbero crederci molto più narcisisti e sfacciati di quanto non siamo in realtà. Inoltre, deridere un “debole” è molto più semplice dietro a uno schermo, perché lascia la percezione di non ricevere una punizione immediata.
Prevalere e umiliare gli altri è una parte tipica del carattere umano, che tuttavia nella realtà tendiamo a mitigare. Nel virtuale invece si traduce in bullismo.

Tirando le somme, i social sono ottimi per informarsi e per spingere i più timidi a legare con nuove amicizie. Ma d’altro canto, per molti di noi alterano le normali funzioni del cervello, spingendo a comportamenti antisociali e a volte pericolosi. Esattamente come fanno le droghe.

Fonti principali
BBC Scienze n. 53, di giugno 2017
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