Il Samurai: storia, potere e cultura – Esiste ancora il suo senso dell’onore?

28 Luglio 2013 | Storia

Chi erano i samurai?

Abili guerrieri, uomini votati al rispetto di un codice. Lavoratori instancabili e perfezionisti in ogni loro azione. Spadaccini insuperabili, tanto da entrare nelle leggende popolari. È così che la storia ce li tramanda e non si può che confermare. Ma come sempre bisogna distinguere tra mito e verità, soprattutto in base al periodo storico, perché i samurai non sono stati sempre gli stessi.

In questo articolo tratto nei dettagli la figura del samurai (quand’era al suo apice): parto dalla storia e passo poi a parlare dell’ideologia, della cultura e del senso dell’onore che li distingueva in battaglia.

L’ascesa al potere dei samurai

Da guerrieri a nobili

I samurai sono figure abbastanza giovani, considerando che sono nate alla fine del 900 d.C. come guerrieri al servizio di un signore. Erano scelti tra chi si era distinto in battaglia, uccidendo il maggior numero di barbari (gli ainu, indigeni del Giappone feudale). Il loro ruolo era, quindi, di servitori di poco conto. Il cambiamento si ebbe nel XII secolo: l’imperatore perse di importanza diventando più che altro un simbolo e al suo posto iniziarono a governare i daimyo, i feudatari locali, che si portavano con loro i samurai.

Non ci volle molto perché i samurai acquisissero potere. Legati al loro daimyo, a cui dovevano assoluta obbedienza, la loro scalata sociale li portò a diventare una vera e propria casta. Il samurai era visto e rispettato alla stregua di un nobile e durante la peggiori guerre, quando servivano combattenti, si aveva la possibilità di battagliare per il proprio daimyo in cambio del titolo di “samurai”.

A questo punto entra in gioco Hideyoshi Toyotomi, ex contadino diventato un comandante samurai e poi daimyo. Era destinato a stravolgere il concetto di “samurai”. Fu lui a decidere senza mezzi termini di rendere quella dei samurai una casta chiusa. Non si acquistava il titolo di samurai: lo si ereditava. Erano diventati di fatto una casta nobiliare.

Privilegi

Siamo tra il 1587 e il 1591. Hideyoshi emise le più ferree ordinanze del Giappone feudale, conosciute come «grande caccia alle spade» e «editto di separazione». In pratica, il samurai diventava un titolo ereditario ed era l’unico a poter aggirarsi in pubblico con le armi.

Non solo: i samurai avevano il diritto di uccidere chi gli mancasse di rispetto, se il calunniatore era di casta inferiore – un diritto che naturalmente provocò più di un abuso. Era il kirisute gomen, cioè l’«autorizzazione a tagliare e abbandonare». Aveva inoltre diversi privilegi, come la possibilità di scegliersi un cognome per distinguersi dagli altri (usanza che ancora non esisteva in Giappone).

La pace e la restaurazione Meiji

Durante il periodo Edo (1600-1868), il Giappone conobbe una lunga pace. I samurai avevano raggiunto l’apice del potere, ma non trovandosi un campo di battaglia furono costretti a cambiare il loro ruolo: non erano più guerrieri, bensì interpreti di duelli teatrali, burocrati e studiosi di arti (poesia, musica e scrittura, che in Giappone avevano molta importanza). Vedete delle somiglianze con i nobili europei? In effetti, non c’erano grandi differenze.

La casta dei samurai durò fino alla fine del 1800. La colpa della loro fine fu dell’imperatore Meiji, che cercò di occidentalizzare il Giappone in tutti i modi. Con due nuovi editti obbligò il taglio del codino dei samurai e proibì loro il diritto di portare le armi in pubblico. Un’umiliazione senza precedenti, che segnò il termine di una figura secolare.

Il bushido – Onore e fedeltà

Non si può parlare di samurai senza tirare in campo i concetti di “onore” e di “fedeltà”. La fedeltà veniva sopra ogni cosa ed era profondamente legata al senso dell’onore. Un samurai non avrebbe mai abbandonato il suo posto in battaglia, non avrebbe mai tradito il suo daimyo e non avrebbe mai disonorato la sua famiglia e il clan.

Se questo succedeva, era scacciato e diventava un “samurai randagio”, un guerriero vagabondo e mercenario al soldo: un ronin. La figura romantica del samurai, promossa dai cinema, riguarda in genere i ronin, ma nella realtà un samurai senza un padrone perdeva ogni privilegio e spesso ogni considerazione.

Capire quanto l’onore contasse nella vita di un samurai è difficile per noi occidentali: la nostra fedeltà si ferma a un contratto temporaneo e muore con quello. Per gli antichi giapponesi durava tutta una vita.

Il codice di leggi che il samurai faceva proprio si chiamava bushido. Era un insieme di regole da seguire per la buona condotta non soltanto in battaglia, ma anche nella vita. Qualche tempo fa ho scritto un approfondimento sul bushido: all’interno trovate anche l’elenco dei precetti che si ricavano dal suo codice.

Seppuku: il suicidio rituale per disonore

Il disonore di un samurai culminava con un gesto che noi occidentali condanniamo: il suicidio rituale. Se il proprio signore cadeva, se la propria casata finiva in rovina o se si veniva sconfitti in battaglia, il guerriero poteva decidere di fare seppuku (o harakiri, il cui significato letterale è “aprirsi il ventre”) e di riguadagnare così l’onore perso.

Come avveniva il seppuku? Il samurai si metteva in ginocchio. Poi, con un movimento rapido, si conficcava la spada nel ventre e procedeva con un segno a “elle”, da sinistra a destra e quindi verso l’alto. A volte c’era un kaishakunin ad assisterlo, un “padrino” incaricato di tagliargli subito dopo la testa con una katana, la spada giapponese per eccellenza.

Perché questa sofferenza al ventre? Non sarebbe stato più semplice, per esempio, tagliarsi la gola? Il fatto è che l’addome era visto come il luogo in cui l’anima e i sentimenti si incontravano. Ma nel caso di una donna, spesso il rituale avveniva sgozzandosi con il tanto, il coltello.

Perché il suicidio violento?

Per noi occidentali ogni forma di suicidio è da condannare. Questo metodo violento di suicidio, poi, ci sembra orribile e immotivato. Non riusciamo a capire cosa ci sia di onorevole nell’uccidersi con una spada.

Spendo qualche parola più su questo concetto importante, perché non è facile da capire. Innanzitutto, dobbiamo andare oltre l’idea della morte. Il samurai viveva continuamente con il pensiero che ogni istante poteva essere l’ultimo e che quindi bisognava viverlo nel modo più perfetto possibile. Questo lo si vede dai gesti precisi e metodici dei giapponesi.

In secondo luogo, dobbiamo considerare che per i giapponesi l’apparenza vale più di qualsiasi parola. La perfezione e la rettitudine di un uomo lo si vede dalle sue azioni. Al tempo dei samurai, morire con disonore significava gettare al vento la propria vita senza possibilità di ritorno: ecco perché si ricercava la morte in battaglia (dove si mostrava il proprio valore) e si conduceva un’esistenza il più vicino possibile alla perfezione. Il samurai si paragonava a un fiore di ciliegio (in giapponese sakura): al primo soffio di vento cade, ma mantiene la sua perfezione; allo stesso modo il guerriero doveva vivere nella perfezione, nell’idea che ogni istante potrebbe essere l’ultimo.

L’ossessiva cerca della morte

Un altro concetto che per noi è poco comprensibile è la fissazione di «cercare la morte». La morte doveva essere ricercata, non temuta. Se un samurai era disonorato (perché il suo signore era caduto in disgrazia o perché aveva compiuto delle azioni immeritevoli) poteva riscattarsi dandosi la morte. Ma anche il suicidio doveva essere “controllato” (l’autocontrollo era uno dei precetti del suo codice d’onore): ecco quindi che ci si doveva mettere in ginocchio, in modo da cadere in avanti e non indietro.

Anche il ruolo del kaishakunin era importante, per impedire che dopo essersi trafitto il guerriero fosse preso dai naturali spasmi della morte. Essere scelto come kaishakunin, paradossalmente, era un onore, e infatti si trattava spesso di un amico o di un parente della vittima.

L’episodio più emblematico del seppuku lo riporta la storia, nel lontano 1582. Allora le truppe di Uesugi Kagekatsu si battevano contro l’esercito di Oda Nobunaga ed erano in una situazione critica: Oda stava assediando il loro castello e non sembravano esserci speranze. La resa non era contemplata. Pur di non cadere preda del disonore (essere catturati e poi cadere in disgrazia), tutti i guerrieri nel castello decisero di compiere un harakiri di massa.

Qui notiamo anche l’importanza di tramandare il proprio nome, di far sapere alla gente che ci si è battuti con onore: ognuno dei suicidi scrisse il proprio nome su una tavoletta di legno e la legarono a un orecchio tramite un foro fatto da loro stessi.

Essere samurai in tempi moderni

Il samurai è una figura ormai scomparsa? Forse no, soprattutto se lo guardiamo dal punto di vista ideologico. I giapponesi hanno da sempre un senso del dovere estremamente spiccato, una meticolosità che manca negli Stati occidentali. Certo, l’apertura al mondo ha smorzato tutto questo. Ma non l’ha ucciso.

Lo dimostrano i fatti della storia recente: come Yukio Mishima, che il 25 novembre 1970 fece seppuku davanti alle telecamere per far rivivere gli antichi valori giapponesi. Le sue ultime parole prima del gesto furono: «Dobbiamo morire per restituire al Giappone il suo vero volto». Se per noi sono comportamenti incomprensibili o sbagliati, per i giapponesi si tratta anche di senso del dovere e di amor di patria (Mishima non era un uomo anonimo e spinto dalla disperazione; le sue opere, tra l’altro, erano conosciute a livello internazionale).

Valori corrotti

Il concetto di “fedeltà” e di “onore” sono però stati traviati dal suo significato originario. Ne sono un chiaro esempio i kamikaze, piloti che nella Grande Guerra erano disposti a gettarsi contro le navi e a immolarsi per il loro Paese. Qui non si tratta più di suicidio rituale per ripristinare l’onore, ma di suicidio per arrecare danni – un po’ come gli immolati talebani, anch’essi una versione distorta dei veri islamici. Oppure il troppo lavoro dei dipendenti giapponesi, che in diversi casi porta al suicidio per eccessivo stress – un fatto visto, tra l’altro, con un occhio di ammirazione da parte dei coetanei.

Ma il codice del samurai non si ferma al Giappone. Il Libro dei cinque anelli di Musashi Miyamoto, leggendaria figura samurai, è usato a tutt’ora come un codice da seguire per quegli imprenditori che vogliono creare un’azienda solida e duratura. È un libro di vita e di ideologia, che insegna a trovare il primo do (la propria “via”).

Il senso dell’onore è scomparso? Io credo di no. Servono soltanto uomini che lo riportino alla luce. Può essere chiunque di noi a farlo: bastano le giuste motivazioni e la forza di volontà. Voi vi sentite samurai, avete un vostro bushido da seguire? In tal caso, forse un pizzico di onore è rimasto.

Fonti principali
Roberto Granati, «Storia dei samurai e del bujutsu»
«Focus Storia» n. 64
Yamamoto Tsunetomo, «Hagakure»
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  1. Sara

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